SOS fame nel mondo
Come in tutte le battaglie, ci sono i bollettini che contano le vittime. Chi combatte la fame nel mondo ha adesso un numero che è diventato la bandiera di una sconfitta.
Una cifra (1 miliardo di persone malnutrite sulla Terra) che da sola sintetizza quanto poco siano serviti in questi anni appelli, mobilitazioni, vertici e proclami. Il conteggio dell’ultimo rapporto della Fao (1,02 miliardi di “affamati”) evoca scenari di epoche passate ma è invece la fotografia dell’attuale aumento delle disuguaglianze e dell’inefficienza delle politiche di aiuto allo sviluppo. Mai nella storia dell’umanità la fame ha colpito una popolazione così numerosa ed estesa geograficamente, anche se oggi gli esperti ripetono che ci sarebbero abbastanza risorse e tecnologie per sfamare tutti gli abitanti del Pianeta.
Rispetto all’anno scorso ci sono oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini che devono accontentarsi di meno di 1.800 calorie al giorno, considerate la “frontiera della fame”. Un sesto di tutta l’umanità si nutre con l’equivalente di due ciotole di cereali, mentre un altro miliardo di individui sono figli delle “fast food nations” e sovrappeso. La mancanza di cibo resta un flagello dei Paesi poveri, con il primato al continente asiatico (642 milioni di affamati, + 10,5 per cento), all’Africa (307 milioni, +12,5) e all’America Latina (53 milioni, +12,8). Ma la novità è che la recessione economica ha provocato un aumento delle persone malnutrite persino nei Paesi ricchi. Anzi, l’incremento percentuale più alto (15,4) è stato proprio nel “Primo mondo”, dove si trovano oggi 15 milioni di persone che soffrono la fame. Nel 2000 c’erano 2 miliardi di affamati nelle metropoli: nel 2030 saranno il doppio. Il rapporto della Fao smentisce anche la teoria del premio Nobel indiano Amartya Sen, secondo il quale le democrazie non producono carestie perché consentono la libera espressione delle proteste sociali. La fame sembra ormai uno spettro con il quale le società più avanzate sono costrette a convivere.
Il 2009 segna dunque un punto di non ritorno. Jacques Diouf presidente della Fao non ha difficoltà a individuare i colpevoli: la recessione e la tempesta finanziaria che hanno impegnato i governi a mobilitare miliardi nel salvataggio dei sistemi bancari. “La stessa azione pubblica decisa” sottolinea Diouf, “servirebbe per combattere la fame”. L’insicurezza alimentare (come viene definita da qualche anno la cronica mancanza di cibo) è aumentata ancora di più con la crisi globale. Molti paesi poveri hanno subito cali generalizzati di esportazioni, investimenti stranieri, aiuti allo sviluppo e anche rimesse degli emigrati nei paesi più ricchi. Nel 2007 le diciassette economie più importanti dell’America Latina avevano ricevuto dall’estero 184 miliardi di dollari in entrate finanziarie: ora siamo a 44 miliardi.
Per Jeffrey Sachs, economista che ha diretto il Millenium Project delle Nazioni Unite, l’emergenza alimentare ha quattro cause. “La prima è una produttività cronicamente bassa dei contadini nelle nazioni più povere, perché non possono permettersi l’acquisto di sementi e fertilizzanti, né l’accesso all’irrigazione. La seconda è la politica sbagliata del sostegno ai biocarburanti perseguita da Sati Uniti e Unione europea. La terza è li cambiamento climatico. La quarta è la crescita della domanda globale di alimenti, provocata dall’aumento dei redditi di alcune popolazioni come la Cina e l’India”.
Il paradosso è che fino agli anni Novanta erano state segnate importanti vittorie nella battaglia contro la fame. Dal 1969, quando la Fao cominciò a raccogliere dati, c’erano 878 milioni di persone malnutrite.
Da allora, la curva statistica è lentamente scesa fino al 1995, anno in cui è cominciata la risalita, e poi l’impennata degli ultimi cinque anni. “In quel momento si è segnata una svolta”, ricorda Marco De Ponte, segretario generale dell’ong ActionAid. “Il cibo è ufficialmente diventato una merce come le altre, dunque sottoposto alle fluttazioni e alle incertezze del mercato”. Nel 1996 c’è anche il primo World Food Summit a Roma, con l’impegno solenne dei capi di Stato e di governo a dimezzare la fame nel mondo, fino a 425 milioni di persone entro il 2015, promessa ribadita nel Millennium Summit del 2000 e in tutti i vertici successivi. Peccato che nel frattempo quell’obiettivo si sia allontanato invece di avvinarsi.
“Credo viceversa che in questi anni abbiamo visto degli esempi positivi”, dice ancora De Ponte, “per esempio la Cina e il Brasile”. Il governo di Pechino è riuscito a ridurre il numero di persone malnutrite con una migliore distribuzione delle terre agricole, mentre il presidente brasiliano Lula ha stanziato fondi per le sue banche alimentari e il programma “Fome Zero”. “È la dimostrazione che si può combattere, e vincere”, conclude il responsabile di Action Aid che ieri ha presentato una sorta di contro rapporto sulla fame nel mondo, dando le pagelle agli impegni dei governi. L’Italia figura al quattordicesimo posto. “Durante il vertice del G8 all’Aquila, Silvio Berlusconi aveva promesso 400 milioni per la lotta alla fame, purtroppo questo impegno non è stato inserito nella Finanziaria”, racconta Marta Guglielmetti, rappresentante per la campagna Onu sugli Obiettivi del Millennio. “Anche sull’aiuto allo sviluppo restiamo fermi allo 0,10 per cento del Pil, in leggero calo rispetto al passato e ben al di sotto dell’obiettivo fissato allo 0,51 nel 2010”.
L’insicurezza alimentare rischia di trasformarsi in insicurezza tout court. “In futuro fame e carestie provocheranno nuovi conflitti”, ha scritto lo studioso Joachim von Braun in un rapporto dell’International Food Policy Research Institute di Wasinghton. Nel 1960 ogni essere umano aveva a disposizione 4.300 metri quadri del pianeta per il suo sostentamento alimentare. Oggi siamo scesi a 2.200 e nel 2030 il nostro “spazio vitale” sarà di soli 1.800 mq. Secondo il think tank americano, per garantire la pace la produzione alimentare dovrebbe raddoppiare entro il 2050, quando saremo 9 miliardi di persone sulla Terra.
Un altro fattore che non induce all’ottimismo è l’inflazione delle derrate alimentari. Nelle aree più misere del pianeta, per comprare il cibo essenziale a una famiglia di cinque persone oggi occorre lavorare in media dieci ore in più a settimana. Dopo la fiammata del 2007 e del 2008 si pensava che i prezzi sarebbero di nuovo scesi. Non è stato così. Neanche la recessione ha calmierato i prezzi.
Tra dicembre e giugno l’indice sul prezzo del cibo stilato dall’Economist è risalito di un terzo. E non per mancanza di offerta. I raccolti di cereali quest’anno dovrebbero essere abbondanti: 2,2 miliardi di tonnellate, dopo il record di 2,3 miliardi del 2008. Ma la domanda è in costante aumento e molti esperti pensano che il costo delle derrate alimentari non tornerà più ai livelli del 2006. Gli alti prezzi agricoli non hanno neanche sostenuto i milioni dei contadini poveri, incentivando l’aumento della produzione. Il raccolto di cereali in Africa resta in media di circa una tonnellata per ettaro, rispetto a tre – quattro tonnellate per ettaro in Europa.
“Serve un intervento di emergenza, con buoni alimentari, aiuti e reti di sicurezza, e a medio termine un programma di sostegno all’agricoltura contadina”, ha detto il presidente della Fao rivolgendosi ai capi di Stato e di governo che si troveranno a Roma dal 16 al 18 novembre per un nuovo World Food Summit. Sarà bene ricordare che le battaglie non si vincono solo con le parole.
Di Anais Ginori
L’allarme lanciato ieri dalla Fao non stupisce Vandana Shiva. Piuttosto, la indigna. Sono anni che questa scienziata indiana esperta di agricoltura e sviluppo, famosa in tutto il mondo per le sue battaglie contro la globalizzazione, sostiene che gli attuali trend porteranno alla fame milioni di persone, soprattutto nei Paesi più poveri.
“Che oggi la Fao lanci l’allarme dopo che per anni ha sostenuto i metodi di sviluppo che hanno affamato migliaia di persone mi fa davvero molta rabbia”, spiega. “Ci dicono oggi che un miliardo di persone sono alla fame. Io penso che occorra chiedersi il perché. Il perché lo spiegano da anni esperti, economisti e climatologi che la Fao non ha ascoltato, come me. Ci sono studi autorevoli che sostengono che le monoculture rendono l’agricoltura più vulnerabile. E che l’uso di fertilizzanti chimici contribuisce al cambiamento climatico. Eppure la Fao ha sostenuto l’uso di queste sostanze. L’India quest’anno ha perso buona parte dei suoi raccolti per alluvioni e siccità, effetto dei cambiamenti climatici. Ci sono contadini affamati. Altri che si sono suicidati. E l’anello iniziale della catena sta in queste politiche, che la Fao ha appoggiato ma di cui oggi denuncia gli effetti”.
Sta dicendo che quella di ieri è una denuncia inutile?
“No, dico che arriva in ritardo. Ma forse ora anche loro capiranno che pensare “business as usual” non è più possibile. Bisogna ripensare e che modello di agricoltura si vuole. Serve prestare attenzione alle cooperative, alle donne che stanno nei campi, ai modelli territoriali”.
Il direttore della Fao Jacques Diouf ha puntato il dito, fra l’altro, verso la crisi economica e la conseguente riduzione dei finanziamenti: condivide almeno questa parte dell’analisi?
“Più soldi per le cose sbagliate non faranno che rendere l’agricoltura ancora più vulnerabile. Più soldi per comprare sostanze chimiche significa nel lungo periodo aumentare il numero delle persone che soffriranno la fame. Significa mettere i produttori in una trappola sempre più profonda: dovranno fare più debiti per comprare semi OGM e prodotti fertilizzanti. Se questa è la strada non verrà niente di buono dai finanziamenti. Pochi o tanti”.
Quale strada occorrerebbe seguire a suo avviso?
“Dare soldi in modo corretto. Puntare sull’agricoltura di piccola scala. Sull’uso delle sementi locali. Offrire appoggio a chi punta sul biologico. E non dare sussidi per i fertilizzanti chimici”.
Quali sono secondo lei le responsabilità dei Paesi ricchi?
“Hanno imposto l’uso di OGM: lo hanno fatto con l’arma del dumping, offrendo sussidi ai produttori di queste sostanze che le hanno così potute vendere a basso prezzo nei Paesi poveri. Creando dipendenza”.
È un processo reversibile?
“Forse. Ma bisogna innanzitutto fermarsi. In questo senso la crisi economica può, anzi deve, essere un’opportunità. Tornare a una scala locale di produzione e di consumo, puntare sul biologico. E finirla con i sussidi che, ricordiamocelo, sono pagati dai contribuenti: sarebbe bene che fossero usati in altri modi”.
Ma nei supermercati biologico è spesso sinonimo di caro…
“A causa dei sussidi. Se non ci fossero non sarebbe così. Ci sono Paesi e regimi che hanno interrotto il ciclo e dimostrano nei fatti quello che sto dicendo: prendiamo il casi di Cuba, del Brasile o della Toscana, che ha ricevuto riconoscimenti a livello mondiale per il suo modello agricolo di eccellenza. Che è su base locale e ripudia gli OGM”.
Di Francesca Caferri
Articoli Tratti da “la Repubblica” del 15 Ottobre 2009