Martin Luther King Jr. – L’apostolo della non violenza
È una linda e modesta casetta in legno a due piani, il numero è 501, la via si chiama Auburn Street a un paio di chilometri ad est dal centro di Atlanta, la casa dove nacque Micheal (in seguito Martin) Luther King jr., nello Stato della Georgia, il 15 Gennaio 1929.
Il padre, Martin Luther King senior, era pastore della Chiesa battista, la mamma una maestra.
Così Martin Luther King descrive la sua infanzia e la sua vita.
MLK: La mia città natale è Atlanta, capitale dello stato della Georgia, detta “la porta del sud”. Per me Atlanta è casa.
Ho frequentato per un certo periodo le scuole pubbliche, poi, per due anni, quello che all’epoca era l’Atlanta University Laboratory High school.
Dal punto di vista della posizione sociale, sono nato in un ambiente normalissimo. Nella nostra comunità non c’era nessuno che avesse accumulato grandi ricchezze.
Nella mia città quasi tutti i negri benestanti abitavano in un quartiere chiamato “hunter hills”. Il nostro quartiere si caratterizzava per una sorta di semplicità, di mancanza di sofisticazione.
Fin dall’inizio sono stato un bambino eccezionalmente sano. Praticamente non so cosa sia un giorno di malattia. E più o meno lo stesso possiamo dire della mia vita mentale.
Sono sempre stato piuttosto precoce , sia in senso fisico che mentale. Perciò , dal punto di vista dei fattori ereditari, sembra che la natura sia stata molto generosa nei miei riguardi.
Nella primissima infanzia il piccolo Martin era solito giocare con i bambini bianchi del quartiere ma, con l’inizio delle scuole elementari, accaddero alcuni fatti incomprensibili che lo rattristarono: fu escluso dai giochi dei suoi vicini di casa e, addirittura, essi ebbero il severo divieto di parlare con lui.
Martin non riusciva a farsene una ragione: non aveva fatto loro alcun dispetto, non li aveva offesi in alcun modo, perché lo allontanavano?
Invano la mamma cercò di rasserenarlo parlandogli di cosa significasse essere di colore e vivere in uno Stato del Sud, gli raccontò delle lontane origini africane, della lunga e terribile schiavitù sopportata dalla sua gente, della Guerra di Secessione che aveva dato loro, almeno formalmente, la libertà.
Pochi anni dopo, mentre si recava con il padre ad acquistare un paio di scarpe, il commesso vietò loro di entrare dall’ingresso principale perché riservato solo “alla razza bianca” e, con disprezzo, ordinò loro di entrare dal lato posteriore: il pastore King fece osservare che non c’era alcuna differenza di colore tra i suoi dollari e quelli “dei bianchi”, ma preferiva andarsene, se non poteva entrare dalla porta principale.
MLK: In famiglia c’era un clima di grande comprensione reciproca. Ho avuto dei genitori meravigliosi. Quasi non riesco a ricordare un momento in cui abbiamo litigato. Questi elementi hanno avuto un notevole peso nel determinare i miei sentimenti in materia di religione. Per me è facile concepire un Dio di Amore soprattutto perché sono cresciuto in una famiglia in cui l’Amore era al centro di tutto e i rapporti d’amore erano sempre presenti. Per me è facile concepire l’Universo come essenzialmente amichevole, soprattutto a causa dell’ atmosfera solidale da cui ero circondato, per motivi ereditari e ambientali. Per quanto riguarda la natura umana, mi è facile propendere all’ottimismo, piuttosto che al pessimismo, soprattutto grazie alle esperienze vissute nell’infanzia.
Martin era un bambino dall’intelligenza molto vivace, tutte queste circostanze umilianti ed incomprensibili lo portarono a formulare una domanda a cui non trovava una risposta e che non riusciva a porre al padre che lo intimidiva moltissimo: che cosa avevano di diverso i neri dai bianchi? Perché erano obbligati a vivere in condizioni subalterne? Perché erano oggetto di tanto disprezzo?
Negli anni seguenti studiò con passione, con rabbia, in scuole rigorosamente segregate, per porre un qualsiasi rimedio a quello stato di cose; sognava di diventare avvocato per essere di aiuto ai suoi fratelli di colore, nell’utopistica idea di una giustizia universale.
MLK: A quattordici anni feci un viaggio da Atlanta a Dublin (Georgia) accompagnato da una mia insegnante molto cara, la signora Bradley. A Dublin presi parte ad una sfida oratoria e riuscii a vincerla. L’argomento che mi capitò, ironia della sorte, era : “ i negri e la costituzione”.
Alcune delle cose che dissi:
“Non potremo essere veri cristiani finché continueremo a prenderci gioco dei punti chiave della dottrina di Gesù: l’amor fratello e la regola Aurea (fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te).
Non potremmo raggiungere il pieno benessere finché un gruppo consistente rimarrà talmente arretrato da non essere in grado di comprare più niente”.
Durante l’adolescenza, mentre frequentava il “Morehouse College” grazie ad un insegnante, capì l’importanza della religione: solo la fede in Dio permetteva ai fratelli negri di sopravvivere e di credere che “Lassù Qualcuno li amava”. Per il giovane questa frase fu una tale rivelazione che, dopo il liceo, s’iscrisse al Seminario di Chester, in Pennsylvania.
MLK: La mia vocazione al ministero pastorale non è stata qualcosa di miracoloso o di soprannaturale. Al contrario, si è trattato di una urgenza interiore che mi chiamava a servire l’umanità.
Completò gli studi e, durante la preparazione della tesi di laurea (conseguita in seguito, all’Università di Boston), conobbe una ragazza, Coretta Scott Young, che studiava canto al New England Conservatory con la speranza di diventare soprano.
La giovane donna proveniva da una famiglia di origini modeste (il padre era un falegname) che era stata oggetto di vessazioni da parte di alcune sette razziste; anche Coretta aveva il sogno di poter fare qualcosa per la gente della sua razza. I due giovani s’innamorarono e nel 1953 si sposarono a Marion, città natale della giovane, poi si trasferirono a Montgomery (Alabama) negli Stati del Sud, ove maggiore era l’intolleranza razziale: entrambi erano decisi a lottare per non essere più giudicati inferiori, ma cittadini come gli altri.
Martin L. King esclamava: “…L’America è la nostra patria, nell’esercito di George Washington, nella guerra per la nostra indipendenza, c’erano anche cinquemila soldati negri… Perché un essere umano deve essere disprezzato per il differente colore della sua pelle?” Il modello di lotta che ispirava la sua teoria era quello proposto da Gandhi: “la non violenza”.
Per questo motivo si spinse fino in India, per approfondire la sua conoscenza sull’ambiente, la cultura ed il messaggio del Mahatma Gandhi e consolidare la conoscenza del “satyagraha”: il principio di persuasione non violenta.
Le sue prediche incominciarono a renderlo famoso tra i suoi fratelli di razza e non solo, la sua battaglia per i diritti civili stava attirando un numero di proseliti sempre più numerosi.
Nel dicembre del 1955 un fatto, in apparenza banale, dette una svolta alla lotta di King. Un’operaia negra salì su un autobus per tornare a casa: aveva lavorato tutto il giorno ed essendo molto stanca, cercava un posto per sedersi. Essendo occupati tutti i posti riservati ai negri, si sedette su uno, tra i molti rimasti liberi, riservato ai bianchi. Immediatamente le fu imposto di alzarsi, ma lei rifiutò, intervenne il bigliettaio, fu chiamata la polizia e Rosa fu arrestata per essersi seduta su un posto “per i bianchi”.
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso: King convocò una riunione di tutti i suoi seguaci stanchi di subire soprusi, anche peggiori di quello sofferto dall’operaia. In questa occasione fu lanciata l’idea di boicottare tutti i mezzi pubblici: nessun negro sarebbe salito sull’autobus fintanto che non fosse stata tolta la “spartizione dei sedili”.
L’iniziativa ebbe un enorme successo: il giorno dopo le vetture pubbliche erano completamente vuote, non solo i negri ma anche i bianchi avevano aderito alla “Lotta non violenta”.
La situazione continuò, immutata anche nei giorni seguenti, i mezzi pubblici rimasero vuoti e le autorità non cedevano e, non sapendo come risolvere la questione, citarono in tribunale Martin L. King per “aver danneggiato l’azienda dei trasporti pubblici”, ma, mentre stava per iniziare il processo, arrivò la strepitosa notizia: la Suprema Corte degli Stati Uniti d’America aveva dichiarato “illegale” la segregazione praticata negli autobus. Fu un’enorme vittoria per King, ma il suo prezzo fu altrettanto alto: gli fecero esplodere una carica di dinamite davanti alla casa, egli stesso fu preso a sassate, picchiato ed aggredito dai cani della guardia nazionale; fu inoltre arrestato una ventina di volte durante le manifestazioni per la pace e, più di una volta, lo stesso John Kennedy, non ancora eletto presidente, pagò personalmente la cauzione per farlo uscire dalla prigione.
Nell’agosto del 1963 Martin L. King guidò un’enorme manifestazione interrazziale a Washington, ove pronunciò un discorso (unendo i criteri della non violenza e ideali cristiani) che iniziava con queste parole “I have a dream…”.
Condusse una campagna per i diritti civili in Alabama e in diversi Stati del Sud. L’obiettivo è la fine della segregazione e l’iscrizione dei neri nelle liste elettorali.
La campagna culmina nell’imponente marcia che il 23 Agosto 1963 porta oltre 250.000 manifestanti a Washington per sollecitare una decisa azione governativa e congressuale. Il presidente John F. Kennedy risponde introducendo una normativa che pone fine alla segregazione nel settore pubblico, fortemente osteggiata dai congressisti. La proposta diventa legge soltanto nel 1964, sulla spinta emozionale del suo assassinio a Dallas. L’estate dell’anno seguente, su proposta del successore Lyndon Johnson, venne invece approvata la nuova legislazione sul diritto di voto. L’anno seguente gli fu assegnato il premio Nobel per la pace e il papa Paolo VI lo ricevette in Vaticano.
Nell’ottobre 1964 il comitato per l’assegnazione dei premi Nobel scelse Martin Luther King come vincitore del premio Nobel per la pace. King ricevette la notizia in ospedale, dove era ricoverato a causa della fatica a cui si era sottoposto. Con i suoi trentacinque anni King era la persona più giovane a cui fino a quel momento fosse stato conferito il premio.
I suoi avversari si ribellarono all’iniziativa e avviarono una campagna denigratoria contro di lui. Un giornale del Sud scrisse: “La gente del Sud sa che, dove passa King, lascia violenza e odio”. Edgar Hoover, direttore dell’F.B.I., definì King “il più famigerato bugiardo del Paese”.
Alla cerimonia ad Oslo, King pronunciò un discorso, che concluse affermando che, quando sarà scritta la storia di quest’epoca, si dovrà rendere un tributo ai tanti “umili figli di Dio”, mai contati né menzionati, le cui sofferenze per la causa della giustizia hanno generato una nuova epoca, “una terra più bella, un popolo migliore e una cultura più nobile”. La cerimonia fu diffusa in eurovisione in tutta l’Europa occidentale.
Era la prima volta che la gioventù potesse identificarsi in un premio Nobel. Nella realtà da incubo che i giovani stavano vivendo, il sogno di King diventava un nuovo simbolo di speranza.
Purtroppo però doveva constatare che la lentezza dei poteri pubblici, il costante e profondo razzismo dei bianchi, non solo negli Stati del Sud, continuava ad esasperare i negri che si rivolgevano sempre più alle soluzioni estremiste, a lui ostili e sostenute da nuovi organismi rivoluzionari: i seguaci musulmani di Malcom X, Black Power, Black Panthers.
Nel Febbraio 1968 a Memphis le forze di polizia caricavano con sostanze chimiche e manganelli i netturbini neri in sciopero, che chiedevano il riconoscimento del loro sindacato, nuovi contratti di lavoro e l’istituzione di un ufficio per le conciliazioni. Il sindaco rifiutò le loro richieste.
I netturbini allora entrarono in sciopero, ma le autorità comunali dichiararono illegale tale sciopero e fecero intervenire la polizia. Come reazione furono boicottati i negozi dei bianchi, fu organizzato un sit-in davanti al municipio e le chiese promossero assemblee di protesta.
Dopo quattro settimane l’amministrazione cittadina ancora non dava segni di cedimento e allora venne chiamato in aiuto Martin Luther King, la cui presenza doveva essere una motivazione in più per i netturbini in sciopero. Inoltre avrebbe dato rilievo pubblico alla loro lotta. Egli parlò davanti a quindicimila persone, spronando i netturbini a continuare la loro lotta e invitando tutti i neri di Memphis a organizzare uno sciopero generale.
Per giovedì 28 Marzo fu indetta una marcia, che si risolse in un fallimento, perché il corteo era avanzato di appena tre incroci quando cominciarono a volare sassi, sfondando le vetrine dei negozi. La polizia intervenne, duecentottanta dimostranti furono arrestati e un giovane morì per le ferite di arma da fuoco riportate.
In città fu proclamato il coprifuoco notturno.
Il 4 aprile King si stava preparando in albergo prima di recarsi ad un comizio indetto per quella sera. Dopo essersi annodato la cravatta uscì sul balcone e scambiò alcune parole con un amico che stava lì sotto.
La pallottola di grosso calibro lo fece schiantare di colpo.
Colpì King sotto il labbro, gli spappolò il mento, rimase conficcata nelle vertebre cervicali e gli trapassò il midollo spinale.
E’ probabile che King sia morto all’istante.
I ghetti esplosero, furono arrestate ventisettemila persone, tremilacinquecento rimasero ferite, quarantatré uccise e i danni complessivi ammontarono a cinquantotto milioni di dollari.
Approfittando dei momenti di panico che seguirono, l’assassino si allontanò indisturbato. Erano le ore diciannove del quattro aprile.
King aveva sempre saputo che quella sarebbe stata la sua fine.
Nel discorso che aveva tenuto la sera prima, aveva detto: “Non so che cosa succederà adesso, ma non è questo che mi interessa.
Sono salito in cima alla montagna, non sono preoccupato.
Come tutti, anch’io desidero vivere a lungo, ma tutto questo ora non mi preoccupa. Desidero soltanto compiere la volontà di Dio.
Egli mi ha concesso di salire in cima alla montagna. Io ho guardato oltre e ho visto la Terra Promessa.
Forse io non arriverò fino là con voi. Ma voglio che voi sappiate, questa notte, che noi insieme, come popolo, giungeremo alla Terra Promessa. Per questo oggi sono felice. No, non mi preoccupa più niente, non temo nessun uomo.
I miei occhi hanno visto l’arrivo del Signore, il suo splendore”.
Pochi giorni dopo, ad Atlanta, si svolsero le esequie di King, a cui intervennero migliaia di persone.
Il killer fu arrestato a Londra circa due mesi più tardi, si chiamava James Earl Ray ed aveva già dei precedenti per rapina, alcolismo e spaccio di dollari falsi. Al processo fu condannato a novantanove anni di reclusione, ma, qualche anno dopo, riuscì ad evadere. Dopo essere stato catturato nuovamente, rivelò che non era stato lui l’uccisore di Martin Luther King, anzi sosteneva di sapere chi fosse il vero colpevole. Nome che non poté mai fare perché venne accoltellato la notte seguente nella cella in cui era rinchiuso.
Ancora oggi il mistero rimane insoluto, alcuni sostengono che ci siano troppe analogie tra il caso King ed il caso Kennedy per trattarsi solo di semplici coincidenze; comunque, il o i colpevoli, se sono mai esistiti e se sono ancora vivi, continuano ad essere sconosciuti.
I leader del movimento nero sono stati quasi tutti eliminati fisicamente. Dopo Malcolm X e Martin Luther King vengono uccisi i giovani dirigenti più promettenti del “Black Panther Party”: Alprentice “Bunchy” Carter, John Jerome Huggins, Fred Hampton; George Jackson viene assassinato in prigione. Altri leader sono costretti all’esilio come Stokeley Carmichael, o messi in carcere per lungo tempo come Rap Brown, Bobby Seale, Geronimo Pratt, Huey P. Newton e molti ancora.
La Forza di Amare
“Ai nostri più accaniti oppositori noi diciamo: Noi faremo fronte alla vostra capacità di infliggere sofferenze con la nostra capacità di sopportare le sofferenze; andremo incontro alla vostra forza fisica con la nostra forza d’animo.
Fateci quello che volete e noi continueremo ad amarvi. Noi non possiamo in buona coscienza, obbedire alle vostre leggi ingiuste, perché la non cooperazione col male è un obbligo morale non meno della cooperazione col bene. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli e noi vi ameremo ancora.
Mandate i vostri incappucciati sicari nelle nostre case nella notte, batteteci e lasciateci mezzi morti e noi vi ameremo ancora.
Ma siate sicuri che noi vi vinceremo con la nostra capacità di soffrire. Un giorno noi conquisteremo la libertà, ma non solo per noi stessi: faremo talmente appello al vostro cuore ed alla vostra coscienza che alla lunga conquisteremo voi e la nostra vittoria sarà una duplice vittoria. L’amore è il potere più duraturo che vi sia al mondo” (Martin Luther King).
Riferimenti:
“I Have a dream” di Clayborne Carson, Edizioni Mondatori
Nota dell’autore: per non incorrere in errori di anacronismo è stata utilizzata la parola “NEGRO” che deriva dall’epiteto “nigger” in uso nel testo originale, che all’epoca in cui viveva l’autore non era di per sé un termine offensivo, ma puramente descrittivo.
Il termine politicamente corretto sarebbe “Afro-americano”.